Una volta era tutta campagna… pubblicitaria
Parlare di Digital Strategy con un’azienda significa affrontare e (provare a) sciogliere i nodi più importanti, del presente e del futuro, di quell’azienda.
E per quanto la “teoria” possa dire che è proprio ciò che bisogna fare, che è proprio uno dei vantaggi diretti e indiretti di una buona digital strategy, la pratica quotidiana di chi questo mestiere lo affronta tutti i giorni sul campo ci riporta con i piedi per terra.
Non è facile trovare aziende disposte, davvero, ad affrontare un percorso strategico che le impegni per i mesi e gli anni a venire, che le impegni a risolvere le questioni irrisolte, che le impegni su terreni un po’ scivolosi e oscuri come il confronto, quotidiano, con il Cliente-Utente.
Gli imprenditori e i manager più scaltri e capaci potrebbero obiettare che la comunicazione, la buona comunicazione, è sempre stata accompagnata da scelte strategiche e che i migliori risultati sul campo si potevano ottenere, anche prima di Internet, solamente coniugando la propria comunicazione ad un output (di prodotto o di servizio) adeguato. E che per produrre un output adeguato l’azienda non doveva avere questioni irrisolte al proprio interno. E’ vero.
Quindi? Dov’è la differenza?
La differenza è che l’output non è più sufficiente. Cioè la qualità del prodotto, la qualità del servizio erogato non sono più le uniche vere fondamenta su cui si esprime il giudizio della propria clientela. Certamente, resta ancora una variabile fondamentale, ma non è l’unica.
Ogni azienda è una casa editrice
Come ormai i guru del digital marketing ripetono da tempo, ogni azienda è diventata produttrice di contenuti, cioè una casa editrice.
Ogni azienda è oggi chiamata a raccontare se stessa, la propria missione, i propri valori aziendali ma talvolta anche i valori di riferimento che la accompagnano. Valori magari non attinenti strettamente al proprio business, ma percepiti come “vicini”, non dall’azienda ma dal pubblico a cui si rivolge.
Non è un caso che durante certe manifestazioni sulla famiglia, molte aziende del mondo si siano spinte ad affrontare il tema. E quali aziende in particolare? Quelle dal target generalista, ampio ed eterogeneo. Aziende di biscotti, di pasta, supermercati, centri commerciali.
Lasciando perdere per un istante il messaggio sociale veicolato, come si può vedere ognuno ha declinato il “suo prodotto” sull’attualità. Ha prodotto un contenuto vicino al proprio Cliente (in quanto attore sociale) e vicino al proprio prodotto.
Ecco quindi che l’opinione pubblica utilizzata per creare spazi di visibilità. E creare spazi di visibilità attraverso l’opinione pubblica e la cosiddetta “arena mediatica” è possibile solo allontanandosi dal racconto, in senso stretto, della propria azienda, del proprio prodotto, del proprio servizio.
E lo storytelling?
OK siamo una casa editrice, ma lo storytelling? Dove lo metti lo storytelling? Un attimo che c’arriviamo! Il punto della nostra riflessione è proprio che gli spazi di pubblicità classica, il racconto completamente autoreferenziale di ciò che si vende, non possono più essere considerati sufficienti per la strategia di comunicazione della propria azienda. E in particolare per la strategia di comunicazione sui media più utilizzati al giorno d’oggi: i social network.
Nei social network, su Internet tutta, le aziende rischiano pericolosamente di sembrare tutte uguali, e l’unico modo che hanno per catalizzare l’attenzione dei Clienti, acquisiti e potenziali, è diventato raccontar loro qualcosa di più.
Raccontar loro il valore di quel che hanno acquistato, il valore di chi l’ha prodotto, il valore del mondo in cui sono entrati, magari inconsapevolmente. Questo fenomeno, ormai consolidato, si chiama storytelling ed è diventato parte integrante dell’output dell’azienda, insieme al prodotto in vendita.
La digital strategy, in concreto
Il lungo preambolo era indispensabile per capire prima di tutto perché serve una digital strategy. Perché come ogni storia che si rispetti questa deve avere uno svolgimento definito. Un inizio, un percorso e un punto d’arrivo.
Una digital strategy è quindi un piano editoriale ben preciso che evita di pubblicare testi/foto/video a caso, che singolarmente non sono in grado di catalizzare l’attenzione su se stessi per più tempo di un battito di ciglia. Serve un racconto, costante, continuo, progressivo, non escludente (attenzione!) e non contraddittorio (non per il proprio pubblico, almeno).
In quest’ottica si capisce perché ha poco senso concentrarsi troppo (prima di aver definito la strategia) sulle proprietà del singolo mezzo utilizzato. Che sia Youtube, Facebook, Instagram, Twitter, Pinterest, LinkedIn, Medium (ecc.), il primo punto di ogni digital strategy sta sul aspetti più alti. I contenuti, il tono di voce, la capacità produttiva, ma soprattutto gli obiettivi di business e gli obiettivi di marketing che dovrebbero stare a monte di tutto ciò.
La digital strategy come una Soap Opera?
Non esageriamo. Però c’è un punto di verità. Le Soap Opera sono costruite secondo un meccanismo non-escludente e non-esclusivo.
In pratica si può anche non conoscere niente di quella storia, può avere anche diecimila puntate trascorse, ma nel giro di pochi minuti devono catalizzare l’attenzione e rendere comprensibile il punto della narrazione.
Ecco, il punto di equilibrio di una digital strategy sta tutto lì.
Sembra difficile? E noi che ci stiamo a fare? 🙂
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